Voglio riprendere da dov’eravamo rimasti, simulando uno straccio di continuità in barba al bidone che ho dato a tutti sabato scorso, disertando l’appuntamento col post settimanale.
(Mi concedo, in verità, un estemporaneo divertissement come vacanza premio dopo due settimane in cui ho eufemisticamente avuto da fare).
(In figura nell’header, comunque: selfie di me e un caro amico, con la fotocamera che ha un po’ scapocciato. Vediamo chi indovina quale sono dei due).
Si diceva delle sbronze moleste di Renato Descartes, di come ciò che chiamate cuore corrisponda spesso nei fatti a una grossa noce calda e gelatinosa, che la Treccani chiama invece cervello; nonché, meno esplicitamente, di come sfatare un pugno di leggende, miti ancestrali e licenze poetiche che pure fecero la gioia di trovatori, romanzieri d’appendice, registi, evangelisti e Lucio Battisti.
Del tipo: credete voi davvero alla storia dell’usare il dieci, il venti, il trenta, il non so quanto ma non tanto, per cento del vostro cervello? Maccio Capatonda ci ha girato una specie di film, idem naturalmente gli americani, con tanto di De Niro e una recente serie spin-off – ma non è la realtà: il vostro cervello è tutto lì, a patto di non chiamarvi Phineas Gage (il guercio sornione che vedete ammiccare ad ampiezza schermo accedendo al blog: sempre lui), e non c’è una sola cellula nervosa di cui, ad oggi, non sia stata provata l’attivabilità.
Il cervello riceve circa il quindici per cento della gittata cardiaca complessiva, consumando il venti per cento dell’ossigeno e addirittura un quarto di tutto il glucosio usato dal corpo. E questi consumi non variano nell’intero corso della vita; a variare è semmai la loro distribuzione, in base al tipo di task mentale che si sta eseguendo. In teoria, con una risonanza magnetica funzionale potrei essere in grado di spiare quanto male ve lo spendete, smascherarvi, strappar via le vostre posticce barbette da grandi pensatori, senza tema di replica.
(Dal canto mio, posso mettermi in salvo parodiando George Best: I spent a lot of glucose on booze, birds and fast cars. The rest I just squandered).
In ogni caso, quando vi dicono: penso troppo, o peggio: tu pensi troppo, o troppo poco, non ve la prendete. Stanno ragionevolmente confessando di non sapere un tubo, di quanto e come pensino o pensiate.
Noi ottusi non pensiamo più o meno, pensiamo altro.
Non è mica per niente comunque, è che ogni giorno diciamo tante di quelle inesattezze! Io amo le sbavature, ma qui è tutto così– campato per aria.
Ci stiamo innegabilmente evolvendo riguardo a un monte di cose, ma è ora di perfezionare un po’ anche i nostri strampalati modi di dire – coniati poi, se uno va a guardare, da scrivanelli da strapazzo che a stento distinguevano, a livello anatomico, le tasche di dietro dei pantaloni dal loro stesso buco del –
– nucleus accumbens. Che è poi esattamente quello che ve rode quando vi accorgete d’aver finito le sigarette. Sul serio: tecnicamente è proprio come se prudesse, anche se poi lo percepite a guisa di chissà quale oceanico, oscuro vuoto esistenziale.
Si sa, va di moda, vedere tutto nero, e per l’amor del Cielo, non sarò io a sottrarmi. Lo sapete, sì, che i colori non esistono nel mondo reale, che sono l’opera brillante di quel buontempone del nostro talamo, del chiasma ottico, o di qualcuno in quei paraggi. Ciò che chiamiamo colore è in effetti una sorta di ingegnosa cifratura per codificare certe caratteristiche della forma delle molecole. Che altrimenti, scemi come siamo, ci confonderebbero; il che, attenzione, non è detto non succeda comunque.
Tempo fa una figliola mi consigliò di vestirmi un po’ più a colori. Quando mi capitò di incrociarla, di lì a pochi giorni, indossava un paio di lenti in bianco e nero, e scrutava il mio felpino rosso fuoco con rassegnazione, come a dire.
L’hai lavata un po’ troppo a caldo mi sa, la tua felpa nera.
Considerate che con l’avvento delle reti neurali perfino le macchine smetteranno di operare in termini binari; il mio invito è a provare a piantarla pure noi, in qualche modo anticipandole, se non vogliamo che una bella mattina d’estate l’aspirapolvere c’imbocchi in stanza a rinfacciarci, proprio lui, sacchetto in spalla, fiero, lucido e lucidatrice, che siamo una manica di babbei.
E su questo tema, pubblicità! (è il mio mestiere, o così si supponeva): leggetevi il volume Mente, calembour tutt’altro che originale ma d’impatto, con un sottotitolo riguardante la vita artificiale, di Domenico Parisi (attenzione alle virgole: non è la vita di Parisi ad essere artificiale).
Non è recentissimo, ma a vent’anni mi diede un sacco da fare, coi cocci e i rimasugli dei miei giurassici luoghi comuni d’Appennino.
Così ci metto pure il pay off: Take it easy, read Parisi.
E magari ci acchitto anche su il prossimo post.
Nel frattempo, vi lascio una dritta per fare perlomeno i fichi e gli studiati la prossima volta che una tipa vi molla. Anziché uscirvene pure voi col vecchio idiotissimo Mi stai facendo male al cuore, ditele un po’: Mi stai facendo male alla corteccia cingolata anteriore. Non tornerà a medicarla, a meno che non esibiate più stile o autorevolezza di quanto non feci io, la volta che mi capitò di dirlo – e non me ne vogliate, ma non ci spero molto.
Quantomeno però saprà che cosa vi ha fatto, la dopaminomane (leggasi piuttosto un qualunque disfemismo, un insulto, una parolaccia a scelta – poiché è dato anche il caso ove un termine inesatto riesca a rendere le cose più nitide, gratificanti, paradossalmente più vere).
Non ritengo superfluo a ogni modo avvertirvi che tale corteccia cingolata avrà probabilmente iniziato a solleticarvi ben prima di essere trafitta: è quel che più in là, a mente fredda (altra inesattezza, su cui per il momento soprassediamo), le rinfaccerete come il vostro brutto presentimento, giacché, geni, ve lo sentivate, voi, lo sapevate già, come andava a finire.
Ma farci caso non cambierà nulla.
A posto così.
Le belle storie che vi avevo promesso, purtroppo, non sono ancora arrivate. Vi ribadisco che ho avuto da fare.
Però chissà, se saremo ancora qui sabato prossimo, magari.