Si direbbe che abbiamo a che fare con un secondo preambolo, o perfino un terzo, tenuto conto del massiccio spazio info qui a destra (o in fondo alla pagina, per gli orridi mobile).
In questo blog vi racconto, banalmente e in soldoni, cos’è che non va – ma secondo un’inquadratura confido più intrigante rispetto alle poco allusive messe a nudo di un comune, giovanile journal personale.
Una prospettiva, come sommessamente anticipato in tagline, essenzialmente neurologica, o neurofisiologica: che renda il tutto più liceale, vale a dire scientifico e perché no, anche classico – nell’accezione che di classico viene in mente sfogliando Dostoevskij, l’Iliade o la partitura manoscritta della Nona in re minore –, attraente insomma anche per chi, forte d’una diversa dislocazione spaziale, temporale o emozionale, non morirebbe altrimenti dalla voglia di interessarsi ai miei nudi affari.
In questo blog vi racconto, tecnicamente e in un certo dettaglio barocco, cos’è che non va nei nostri sistemi cognitivi. O cos’è che ci consola pensare non vada.
Ma occorrerà tener conto di certi presupposti su come riferirsi a, e in generale su come intendere e significare, sé stessi.
Il tizio della miniatura nell’header non sembra curarsi di nasconderlo, ciò che non va, inconvenienti fisici o cognitivi di cui dar conto agli stronzi; sicché, per smorzare ogni prevedibile irriverenza mi attarderò a dichiarare che potrei essere io stesso, o potrebbe corrispondere a una sorta di mio onesto autoritratto tridimensionale, del periodo magari un po’ pessimista: Mi sento un po’ così art selfie, visuale interna. E il periodo storico degli art selfie, pessimista farà bene ad esserlo, quantomeno per onestà.
Ma si tratta a onor del vero del cosiddetto Homunculus sensitivo, un modello ideato da Wilder Penfield, stempiato pioniere della neurochirurgia e, dacché nomina fuerunt consequentia rerum, riconosciuto campo di penne selvatiche canadese – o giù di lì, e preferisco dimenticare che di secondo nome facesse Graves; – ideato da costui, dicevo, per rappresentare l’estensione relativa delle aree della corteccia cerebrale coinvolte nella ricezione delle afferenze affettive dai vari segmenti somatici del corpo umano: grandi mani, dunque, corrispondenti a una informazione percettiva più dettagliata, a livello più o meno conscio, in virtù di una miglior definizione delle regioni deputate a interpretarla.
Raffigura, l’omuncolo, ciò che fra i neuroni va per la maggiore, di cui si parla di più e con maggiore interesse, una sorta di leadership mediatica o di vippismo sinaptico.
Quel che passa per le mie mani sta forse più a cuore a questo mio io interiore di quanto, dentro e fuor di metafora, mi passi per il cazzo.
Ora, checché ne vogliano l’occhio critico dei miei presunti simili o il mio stesso specchio, mi capita di convincermi talvolta che il mio aspetto autentico possa essere questo. Di poter rispondere a certi questionari o ai ficcanaso del Come sei fatto? Cosa conta davvero per te? semplicemente tirando fuori di tasca il mio bel santino.
È così che sono fatto, amico; non come il volto che vedi, non come il cuore, che è un muscolo, una pompa idraulica, uno sfintere; non come l’anima che la tua umanità puerile e superstiziosa mi ha collocato nel petto, o nell’epifisi stando a Descartes, che pure aveva le scuole alte ma che di tanto in tanto temo alzasse un po’ il gomito. Cos’altro, poi? Qualunque cosa: non quella, non sono così. Piuttosto, semplificando, io sono tale, quale risulti la quantità e qualità dell’informazione elaborata nei vari distretti del mio sistema nervoso. Per quanto poi a ciascuno di essi possa talora esser concesso il proprio warholiano quarto d’ora di celebrità, sempre sinaptica: di tanto, perlomeno, si fa testimone l’esperienza.
Concludo un po’ mestamente, annotando come il mio caso risulti ancora piuttosto singolare: chi ha avuto modo di imbattersi in me live può confermare come ciò in cui io più assomigli all’omuncolo di Penfield resti proprio e malauguratamente la faccia.
Scherzo, dài: non ho una bocca così grande, anzi, e non sono calvo. Ciò non ostacola in ogni caso l’idea di usare questa come immagine profilo di qualche social – anziché l’istantanea delle mie chiappe nude e tatuate e del mio cane, come ispirato da una delle tendenze più decadenti e inquietanti di quest’epoca crepuscolare.
Questa però, manco a dirlo, per fortuna è un’altra storia. E le storie qui, dopo tante, forse troppe premesse, stanno finalmente per cominciare.